MACALUSO AVEVA RAGIONE

Pare proprio che il frontale del 4 marzo per il mediocre gruppo dirigente del Pd non ci sia stato. Infatti gli esiti dell'Asssemlea Nazionale dello scorso sabato hanno reso evidente ciò che si era già chiaramente avvertito nelle settimane precedenti ossia che il Pd, i dirigenti del Pd, hanno compiuto la scelta più comoda ma anche la più inutile e dannosa.
Anzichè interrogarsi sull'opportunità di mantenere in vita un soggetto politico che, sin dal suo concepimento, ha provocato solo disastri fino a portare la sinistra riformista sull'orlo dell'estinzione, i mandarini del Pd hanno pensato di rimettere in piedi il carrozzone delle primarie allo scopo di riorganizzare il partito, non mutando assolutamente nulla.

A cominciare dai candidati, almeno quelli destinati a condendersi la vittoria, che sono diretta espressione del vecchio apparato Pci Pds Ds su cui grava la storica responsabilità di avere desertificato, in tempi e con modalità diverse, la sinistra, tanto quella riformista che quella radicale. Uno, Nicola Zingaretti, rampollo del sinedrio capitolino riunito attorno a Valter Veltroni il quale ha, mediante una visione tanto ottusa quanto velleitaria, creato un partito a sedicente vocazione maggioritaria (mai esistito nulla di simile nell'Italia repubblicana, neppure ai tempi della Dc di De Gasperi), privo di un'identità definita, che altro non è stato che l'applicazione bonsai della stravagante dottrina del compromesso storico di Enrico Berlinguer che non funzionò quando fu proposta e non si vede perchè avrebbe dovuto funzionare anni dopo con condizioni sociopolitiche profondamente mutate. L'altro, Marco Minniti, cresciuto sotto il patronage di Massimo D'Alema, ideatore della Cosa2 (Ds), altro fallimento post comunista, la cui gestione fu affidata all'allora intraprendente segretario della Calabria che non riuscì nonostante gli sforzi a portare altro che ceto politico di diversa provenienza riformista, ma nessun consenso elettorale.
Insomma sui due candidati di punta pesa eccome il "come nascono" poichè se, come qualche esponente dem ipotizza sia pure timidamente, bisogna "andare oltre il Pd" è ben difficile che i due candidati abbiano la forza, la lungimiranza le capacità di evitare di creare in miniatura un Pds, modello di partito a cui restano inevitabilente legati. Non è un caso che, alla viglia dell'Assemblea dem, Liberi e Uguali, la formazione composta dagli scissionisti guidati da Pierluigi Bersani, si sia sciolta e i suoi componenti siano pronti a rientrare nella casa madre.
Vi è poi la questione riguardante la tenuta del partito, messa a rischio dall'irrequitezza di Matteo Renzi e dei suoi seguaci. Dal recente seminario dei renziani, tenutosi a Salsomaggiore è stato rotto l'incantesimo che vietava la pronuncia della parola scissione perchè sino ad allora era considerata una  sorta di bestemmia. In realtà appare  evidente che la convivenza di anime così diverse all'interno del Pd, con la prospettiva più che concreta del ritorno  di Bersani e gli scissionisti di LeU, non sarà possibile e dunque va facendosi concreta la possibilità che l'expremier separi il suo destino politico dal Pd e lavori ad un'aggregazione che potrebbe giovarsi del lento ma inesorabile declino di Forza Italia, la cui parte più moderata e non sensibile alle sirene salviniane potrebbe, almeno in teoria, portare linfa nuova ad un soggetto politico  a lui direttamente riconducibile e soprattutto non ascrivibile sic et simpliciter al centrosinistra.
Senza che sia stato affrontato il grande equivoco (o inganno) di fondo legato all' individuazione delle cause del rapido declino del Pd che non può e non deve essere unicamente ascrivibile alla gestione personalistica di Renzi il quale, almeno fino alla celebrazione del referendum istituzionale, non ne aveva sbagliata una, ma alla sostanziale inconsistenza politica, programmatica e culturale dell'ircocervo veltroniano.
Renzi ha  avuto casomai il merito di mantenerlo in vita il Pd, grazie al boom elettorale alle europee che, tuttavia, per paradosso ne ha segnato l'inizio della rapida decadenza. Il 4 marzo non ha perso solo Matteo Renzi: è franata la fragile impalcatura messa su da Walter Velroni nel 2007.
L'unica cosa che si sarebbe dovuto fare dopo il 4 marzo dunque era scioglierlo il Pd,come suggerito da autorevoli osservatori.
Le primarie e il congresso la terranno in vita artificialemte ma la luce in fondo al tunnel non si vede e chissà mai se si vedrà.
Quanto a Matteo Renzi, c'è d crederci, con i suoi comitati civici giocherà un'altra partita. Già concorrenziale, alla ricerca di energie alternative al Pd, convinto che il partito, questo partito, non sia piu' capace con le sue sole forze di raccogliere la protesta all'esecutivo giallo-verde.
Codesto desolante scenario l'aveva preconizzato dieci anni fa, in un efficacissimo pamphlet "Al capolinea", un grande vecchio della sinistra riformista italiana.
Si chiama Emanuele Macaluso (classe 1924).