Alla frontiera

In coda alla dogana per il controllo passaporti ci si sente fuori dal tempo. Soprattutto varcando il confine di un paese in cui lo spazio libero di discussione democratica è sempre più fragile.

Sono su un pullman che da Zagabria, con una rotta poco logica, mi porta prima a Budapest e poi, da lì, a Belgrado. Si viaggerà tutta la notte, un po’ scomodi e con compagni di viaggio di vario tipo.

A Zagabria ho incontrato alcune tra le associazioni più attive nella società civile croata. Il Center for Peace Studies, per esempio, svolge un lavoro noto ai Croati e rivolto a stimolare la cittadinanza attiva e ala partecipazione politica tra i giovani, oltre che svolgere il lavoro da centro studi in senso stretto, in particolare orientato allo studio e alla mappatura delle disuguaglianze. Ho scoperto in quest’occasione che la responsabile esteri dei giovani socialdemocratici croati ha iniziato ad interessarsi di politica proprio grazie alle loro attività. Naturalmente, sono in prima fila nell’opposizione a un governo che soffia in modo spregiudicato su ricordi nazionalistici, in un paese dove chi ha più di 30 anni ricorda molto bene, quando non ha fatto in modo diretto, la guerra. Eppure Zagabria è vivacissima e la sua società civile, anche se in allarme, è visibilmente molto frizzante.

Al confine l’aria è diversa. Nel corso delle ultime tre settimane ho incontrato ricercatori dell’Università dell'Europa centrale (CEU) con sede a Budapest e attivisti che si oppongono al governo di Orbàn. Abbiamo parlato a lungo e ciascuno esponeva la stessa situazione: in quattro anni, dal 2014, siamo passati da quelle che sembravano annunci farneticanti di un megalomane alla chiusura di corsi universitari e a una lista pubblica di individui stilata dal governo per denunciarne l’attività “di agenti degli Stati Uniti che operano contro l’interesse nazionale e della cristianità”. Il problema è che nella lista non c’è soltanto Soros (che è ungherese), ma anche attivisti dai mezzi assolutamente inferiori e dunque molto più esposti.

Ecco come un banale controllo del passaporto mi fa sentire fuori dal tempo. O fuori dall’Europa, eppure non potrei esserci più ci sono in mezzo di così.

È una sensazione strana. Per chi è impegnato politicamente, come me, è molto difficile non sentirsi complici dell’asfissia dello spazio democratico in paesi così vicini. Perché la politica a cui partecipiamo non ha realizzato uno spazio democratico europeo sufficientemente sviluppato, a livello sovranazionale, per non essere impotenti di fronte alla realtà che affrontiamo oggi.

Ci si domanda come è possibile che la popolazione ungherese abbia scelto una strada che sta portando il paese sempre più fuori dall’orbita delle democrazie liberali e sempre più in quella delle democrazie malate, alla Erdogan. Perché anche se Orbàn ha istituito una legge elettorale con un forte premio di maggioranza, è pur sempre vero che non solo è stato democraticamente eletto, ma che lo è stato con ben il 49% dei consensi. Si può sempre dire che è meno del 50%, ma non si può certo affermare che non goda di supporto popolare. Ecco perché ci si sente complici.

Ho chiesto a tutti i miei interlocutori cosa stia facendo l’opposizione. Risposta: si frammenta e perde sempre più efficacia. E ormai siamo al punto per cui il potere di Orbàn è talmente consolidato che è iniziata l’introduzione di leggi come quelle citate, che reprimono lo spazio di partecipazione civile e la possibilità di organizzazione dell’opposizione. Ma non va dimenticato che è in rimo luogo l’opposizione qd qver perso tempo.

Il pensiero corre all’Italia. Anche quello dei miei interlocutori. Tutti chiedono con curiosità e allarme cosa stia succedendo. Mentre attraverso il confine, mi convinco sempre più che sta succedendo qualcosa di molto simile: la tendenza a mentire da parte del governo, perfino sui dati, sul significato delle misure che si vogliono introdurre, sulle motivazioni a esse sottese. La negazione di ciò che si è detto il giorno prima, il ribaltamento del significato delle promesse elettorali. La deliberata violazione dei diritti fondamentali e del diritto internazionale in nome di un nemico che finalmente ci unisca.
“Prima gli Italiani”. Ci volevano i migranti in fuga dalle guerre, i disastri climatici e la miseria per fare gli Italiani...chissà che ne penserebbero D'Azeglio e Cavour.

E intanto l’opposizione è frammentata, muta e inefficace. A domandarsi che ne direbbe Cavour anziché reagire, organizzarsi, galvanizzare i movimenti giovanili e le tantissime realtà che nella società civile animano l’unica resistenza culturale alla mattanza attuale dei valori di solidarietà, giustizia sociale, libertà collettiva e individuale.

Molti ancora pensano che in Italia non possa succedere ciò che sta accadendo in Ungheria. Ma mentre aspetto che mi restituiscano il passaporto guardo il poliziotto e mi chiedo: perché? E cosa impedisce all’Italia di precipitare in una situazione simile? Abbiamo argini più solidi, certo. Una democrazia un po’ più matura. Eppure gli Ungheresi vengono agitati da Orbàn al grido della gloria nazionale perduta nel tempo. Gli Italiani si scaldano per l’assalto ai confini da parte dei migranti. La protezione dei confini. La promessa di cambiare tutto, anche se è a costo di un ulteriore indebitamento pubblico e di tassi di interesse più elevati. Che pagherà soprattutto la nostra generazione. Anche gli Italiani sono in preda allo stesso delirio.

E dunque, cosa ci protegge davvero? Pensavamo che l’Unione europea fosse una protezione. Lo può essere, ma oggi è impotente. Lo diventa solo se la rendiamo più democratica, per esempio con più poteri al Parlamento europeo e meno al Consiglio. L’Ungheria è nell’UE, ma ci sono liste di individui che, per il solo motivo di aver espresso dissenso nei confronti della linea di governo, sono ora esposte al pubblico quali nemici del popolo.

Abbiamo criticato tanto la democrazia, ma è la sola protezione reale. Ora sono gli Ungheresi, domani siamo noi. Ora sono gli immigrati, domani chissà.